Francesca Rusalen ‘Olly Olly Oxen Free’ L’EMERGERE DEL POSSIBILE 17 April 2018


Olly olly oxen free (Inghilterra, 2017, 3′) è l’ultimo film di Julia Dogra-Brazell, artista che tenta un’analisi fine sullo svelarsi e la resistenza, intesa quest’ultima come permanenza delle cose e quindi della loro lotta alla vita, in qualsiasi altra forma, anche nella non-morte, ma soprattutto del brulicare che ne emerge nel cinema. Partendo dalla fine del film, si scopre una narrazione che, se non va a spiegare completamente i minuti precedenti, quanto meno questi ne vengono potenziati o, meglio ancora, incattiviti. Da incattivirsi in effetti ne avrebbe le ragioni l’allora ancora vivo, nel 1946, Willie Francis, di cui si parla nel cortometraggio per la fine della sua vita, della sua non fine grazie a un malfunzionamento della sedia elettrica e della ripetizione, crudele, della propria morte perché, di fatto, per la corte dello stato, non morto precedentemente. Olly olly oxen free, però, non è un film sulla morte o sulla vita intesa quest’ultima come ciò che sconfigge, se così si potrebbe dire, la morte stessa o, quanto meno, se ne rivale per un errore tecnico. Semmai, è la tecnica a rivalersi sulla vita di Francis come possibilità dell’errore e quindi più attaccata all’uomo, non unico custode della stessa. Rivalsa che, sopra ogni cosa, l’apparato statale compie su Francis, non tanto vittima ma prodotto dello stesso, esaltato esemplarmente. La sua non è più vita, è non-morte. Questo secondo tempo è di esposizione, perenne, ancora di più, all’apparato statale, cosa che, s’immagina, non avvenisse prima – qualsiasi tipo di vita criminale facesse “nell’ombra”. L’ombra dello stato è statale anch’essa, ma la sua ombra è anche la possibilità che qualcosa si differenzi dalla figura, che emergendo s’affossi distorcendola, deviandola. A questo punto il film non compie alcuna chiusa, ma narra, in modo a tratti fuorviante, ciò che è stato prima. Le immagini, ripercorse alla luce della fine, colludono con la parola scritta – quella del finale – ma non con la parola sulle scene, quella a voce. Va da sé che si crei un principio di scollamento a ritroso. Se prima l’atto della ricerca di senso non riusciva a concludersi con il procedere dei secondi della pellicola, dopo il finale ci si rende conto di trovarsi entro un duplice movimento, cioè quello della risoluzione – della voce sulle scene e del finale narrato attraverso lo scritto – e quello che continua la propria ricerca. Di fatto, quindi, ciò che avviene è un non esaurirsi del film con una narrazione conclusiva, ciò che dovrebbe far da chiusa, spiegando, ed è un non esaurirsi che in qualche modo libera il film da ciò che gli imprimeva un senso: è una non-morte anch’essa, ma una non-morte che si scontra a sua volta con un’altra linea di senso e dissenso, quella educativa. Prendendo in considerazione tale linea veniamo a contatto probabilmente con il nodo del film, il quale allude allo svelarsi in un gioco infantile. Qui, il rimando è chiaro e di rimando, è bene sottolinearlo, si tratta, perché è proprio su questo che poggia l’intero film. Ciò che viene visto rimanda da una parte, alla propria immagine, alle mani che scrivono su una macchina da scrivere, un testo prodotto e dall’altra, a ciò che è udito, visto anch’esso per immersione della scena, quasi che il movimento di ricerca di senso di cui si parlava prima, inducesse in questo caso ad una certa visione. In poche parole, noi non solo sentiamo, ma anche vediamo i bambini che giocano durante la ricreazione e che rispondono alle domande degli adulti. Questa visione non vista è proprio un utilizzo del rimando per sostenere la visione medesima. Ciò che vediamo non solo quindi non sussiste senza un apparato audio, ma non sussiste nemmeno senza questo movimento al di fuori della scena che, sempre dentro il film, rappresenta uno svelamento di particolare natura. Non quindi il mostrarsi della propria fisicità che irrompe nella visuale, che va a rompere il nascondersi, ma anche proprio uno svelamento che, nell’atto dello svelare, si nasconde in parte o, meglio, rimanda ad altro per completare non tanto una visione ma l’esperienza cognitiva. Una specie di rappresentazione sempre rimandata, in cui il presentificarsi è differito almeno in parte e il mostrarsi davanti è anche un nascondere la svelatura agli occhi.



Text © Francesca Rusalen 2018